Qualche settimana fa ero a pranzo con alcuni amici. Seduto alla mia sinistra c’era un importante produttore di vino piemontese di cui non farò il nome. Si parlava dei cosiddetti vitigni “minori”, e arriverà forse un giorno in cui troveremo un’espressione migliore di questa, mi auguro. La tesi del mio vicino a tavola era più o meno questa: «se certi vitigni sono praticamente scomparsi la ragione è molto chiara: non erano e non sono qualitativamente interessanti».
Mi è sembrata una forma di darwinismo ampelografico, di legge della sopravvivenza del più adatto o del più forte applicata alla viticoltura. Quindi mi sono opposto immediatamente, armandomi di una buona dose di relativismo storico: non è detto che ciò che funzionava (per il gusto e per la cultura produttiva in primis) in una data epoca, fosse anche solo trent’anni fa, possa funzionare allo stesso modo oggi. Alcune uve sono state messe da parte perché avevano (e hanno tuttora) una produttività scostante, e i contadini di inizio Novecento necessitavano di certezze e di piante cariche d’uva da vendere o da trasformare, per mettere in tavola qualcosa tutti i giorni.
Alcune altre varietà sono ad esempio scomparse da alcuni territori della Francia perché i nostri cugini, dopo la fillossera, hanno proceduto a una razionalizzazione agronomica spietata, eliminando i vitigni marginali come il pinot bianco nel Sancerrois, per citarne uno. Altre ancora sono sopravvissute solo in qualche filare sperduto perché il clima di un tempo rendeva difficoltosa la loro maturazione, cosa che oggi non è più. E poi è cambiato totalmente il rapporto tra agricoltura e vino: in valle Maira, nel Cuneese, un tempo si coltivava il cosiddetto blancho (gouais blanc) fino a mille metri di quota, perché era molto resistente al freddo, anche se poi dava vini bianchi terribilmente aspri. Ma era l’unica varietà conosciuta dai valligiani che permettesse di fare vino per l’autoconsumo in loco, quindi poco importava che fosse pressoché imbevibile, dato che non esisteva un mercato del vino in quelle zone. E oggi, guarda un po’, la sua elevata acidità naturale potrebbe tornare di nuovo utile.
La mano invisibile…
Non è un caso che, al netto di enormi semplificazioni, a fine Ottocento il cosiddetto darwinismo sociale, l’applicazione cioè delle teorie dell’evoluzionismo darwiniano ai fenomeni sociali, alla riflessione politica e agli studi economici, abbia abbracciato l’epica della mano invisibile evocata dagli scritti di Adam Smith. D’altronde la mano invisibile per Smith era legata al concetto del risultato non intenzionale, e andando un po’ più a fondo, di sistemi (nel suo caso economici) che si autoregolano, creando equilibrio e sviluppo. Mi sento quindi di poter dire che l’importante produttore di vino che mi sedeva accanto non stava facendo altro che applicare l’idea della mano invisibile al patrimonio ampelografico, sostenendo che l’evoluzione di quest’ultimo è frutto di un meccanismo di autoregolazione che opera in armonia. Sennonché Smith aveva torto marcio, come dimostra la storia più o meno recente del capitalismo: i sistemi (economici, sociali, e pure ampelografici) non si autoregolano affatto: dietro il loro funzionamento c’è l’intervento consapevole dell’uomo, che ne direziona i destini inseguendo precise finalità.
… e la mano visibile di Antonio Camillo
L’incontro con Antonio Camillo e il suo nuovo progetto di recupero della grenache e del carignano in Maremma ha inevitabilmente portato a galla queste riflessioni. Sì, perché il lungo lavoro di Antonio, fatto di attenta e maniacale salvaguardia del patrimonio ampelografico di questo pezzo di Toscana, è l’esempio lampante di come le varietà viticole sopravvivano e anzi si diffondano in primo luogo laddove c’è una mano visibile in opera. Destinati forse alla scomparsa o perlomeno al totale anonimato in questa zona, grenache e carignano sono stati individuati e difesi, moltiplicati e studiati.
E da questo lungo lavoro, iniziato operativamente intorno al 2015, sono usciti tre vini di cui è necessario parlare ben al di là di ogni possibile giudizio critico-organolettico. Soprattutto al di là di ogni possibile giudizio critico-organolettico.
Il Granè, da uve carignano in purezza, è un vino più di bocca che di naso, complice un profilo aromatico introverso, che non si concede con facilità. Il palato è sempre vibrante, come ben dimostra l’annata 2022: tesa, fresca, lunga e salata, si fa bere invitante. Piacevolissima anche la versione 2016, sostenuta da un filo di volatile che valorizza il quadro complessivo, invece di disturbarlo.
Il Tinto di Spagna, da uve grenache in purezza, ha il carattere accogliente e generoso di questa nobilissima varietà mediterranea. Superlativa la versione 2015, che si distingue per tipicità aromatica e gastronomica polposità in bocca. Di bella energia e mineralità anche la 2021 e la 2022.
Il Mediterraneo 2023 di Antonio Camillo
Ma, per quanto mi riguarda, ritengo doveroso soffermarmi sul Mediterraneo 2023, un assemblaggio di Ciliegiolo (50%), Grenache (35%) e Carignan (15%). Giovanissimo, forse fin troppo per essere oggetto di disquisizione degustativa, è però già fortemente identitario. Nomen omen, diremmo: speziato, setoso, mediterraneo nel colore e nella croccantezza, ma soprattutto nella sua solarità pomeridiana. Mediterraneo anche nei nobili intenti: non solo perché è un assemblaggio, scelta che richiama ataviche radici contadine e il Sud della Francia, ma anche perché per ogni bottiglia venduta Antonio destinerà 30 centesimi di euro a Life Support di Emergency, che soccorre i naufraghi del Mediterraneo. Ci piace già prima di aprirlo, in effetti, come ha suggerito l’amico e collega Fernando Pardini.
Ha detto bene Giampiero Pulcini, ispirato oratore che ha avuto il compito di presentare il progetto di Antonio Camillo durante l’amichevole cena del 7 marzo scorso presso la Trattoria Verdiana a Montemerano: «i vini di Antonio sono vini reali, perché intrisi di realismo e di buonsenso». Ed è proprio in quel realismo e in quel buonsenso che vedo la mano visibile di Antonio, e dei suoi soci e collaboratori: è il lavoro di chi non si è rassegnato alla sopravvivenza del più forte, ma ci ha messo cuore e intelletto per fare qualcosa di grandioso, in grado di emozionare. È questo il vino che ci piace.
Fonte: Gabriele Rosso - SlowFood.it