“Al primo segue il secondo. Al secondo il terzo. E il conto è presto perduto. Il vino buono si vende senza frasca”.
Così Mario Soldati, nell’autunno del ’68, parlava del suo primo incontro con l’Aglianico in quel lungo viaggio in Irpinia. “Insomma si tratta di un vino di prima classe: un “gran vin [..] ma oggi chi ha più il tempo e la pazienza di cercare il vino dove non è frasca? Oggi il vino [..] si vende in grandissima parte con la pubblicità”. E da quel ‘68 ad oggi, poco pare essere cambiato, per un Taurasi che continua ancora a districarsi tra le difficoltà del suo tannino e del suo marketing. A parlare sono i grandi numeri. Su oltre 1.100 ettari di superficie vitata, infatti, meno di 400 sono rivendicati a Taurasi. E tra questi, poi, bisogna considerare che, in corso d’opera, ulteriori ettolitri vengono declassati nelle Denominazioni di ricaduta, tra le Doc Campi Taurasini o Campania Aglianico. Va da sé, quindi, che le bottiglie prodotte sono praticamente nulla. Si stima che nel 2020 la produzione sia sotto un milione di bottiglie, ma venderle, sarebbe comunque una gran cosa. E, infatti, se gli illustri lo innalzano (e Parker lo premia), neppure questo pare bastare, visto che il Taurasi continua, purtroppo, ad essere il principe degli assenteisti nei grandi mercati internazionali.
Ma allora se il marketing ce la sta mettendo tutta e se le critiche e le guide stanno sostenendo il “figliuol prodigo” perché il Taurasi non si vende mentre i suoi “affini” Barbera e Barolo – Denominazioni nelle quali in passato, l’Aglianico veniva “ordinariamente smerciato” (Pier Giovanni Garoglio docet) – fanno il giro del Mondo? La risposta è nel consumatore. In un tempo di “less is more”, tra giochi di sottrazione e riduzione, pare che l’Irpinia viva, invece, in un mondo anacronistico e in controtendenza, che viaggia tra il Barocco e i suoi sfarzi. Le nuove annate mostrano Taurasi faticosi, opulenti, e pare di stare tra le cantine della corte di Francia a sentir quel legno praticamente onnipresente nel naso e nel sorso. Eppure la storia, un tempo, non era questa. La storia dell’Aglianico, anzi, era di reali fasti, quando già negli anni Trenta del XIX secolo, il vino di Taurasi e l’Irpinia tutta, contava oltre 60.000 ettari coltivati, e una produzione superiore al milione di ettolitri. La provincia di Avellino era tra le prime tre in classifica nella produzione di vino. Ed è qui che è nata anche la prima “ferrovia del vino” fatta di vagoni ferroviari destinati al Nord Italia e alla Francia, i cui vigneti erano stati flagellati dalla fillossera. Un flagello che poi ha colpito anche la Campania segnando il suo declino.
Dovranno arrivare gli anni ‘70 per un’inversione di rotta e forse anche Soldati, in quell’autunno del ’68, era inconsapevole che quella sarebbe stata un’annata eccezionale, ancora oggi utilizzata come metro di paragone. Un ‘68 che è stato anche l’anno della rivoluzione, con il timido approccio di zonazione da parte dell’azienda Mastroberardino, e la nascita di cru come Montemarano, Castelfranci e Piano d’Angelo (una contrada di Taurasi). Insomma tutti gli astri erano in asse. E allora se non è la storia che “ha sbagliato”, chi ha sbagliato? Perché negli attuali tempi questa faticosità di beva pare essere diventata la lettera scarlatta del Taurasi? Se non è questo il vero Taurasi, allora quando e perché è arrivata questa spersonalizzazione? Tra quesiti che non trovano risposte, in attesa di un cambiamento stilistico nell’affinamento, la soluzione pare essere stata offerta, sempre in quel lontano ’68, dal Soldati, che nell’accettare le difficoltà dell’Aglianico, e la necessità di adottare una visione comune tra i produttori, così risolveva: “Dobbiamo però adoperarci perché abbia frasca, e una frasca sua, diversa dalle altre”.
Questo lungo discernere e discettare, prende, in ogni caso spunto da una degustazione vera e reale di quello che è il Taurasi, in un’orizzontale 2010 (a dimostrazione che non bisogna sempre scavare nei meandri del passato per bere un Taurasi) di vini prodotti da coltivatori che nulla hanno a che fare con le dinamiche esposte. E questo dimostra che di Taurasi buono ce n’è, eccome, solo che bisogna ancora andare a cercarlo.
Taurasi Docg – Perillo
Annusa, assaggia, ammira. Nel Taurasi di Michele Perillo la celebre frase di “Mangia, Prega, Ama” prende nuova forma e sostanza. Basta un calice di questo Taurasi e nessuna mancanza può pervadere il corpo, perché nulla manca qui, a Castelfranci. Michele Perillo è un vero e proprio faro nel mondo del vino artigianale e, a dispetto di una notorietà crescente, non ha mai deviato il suo percorso verso mode effimere e passeggere. In questo millesimo il suo Taurasi è la garrigue e il suo vegetale. Sorso scattante e godurioso al pari. Non c’è molto da dire quando un vino è buono.
Il Taurasi necessita di cibo, quindi se siete in zona, il consiglio è di ordinarlo seduti ad un tavolo della Trattoria “Valleverde da Zì Pasqualina” ad Atripalda. Amica personale di Luigi Veronelli e ambasciatrice della cucina irpina.