Cominciamo con questo articolo una collaborazione con Giampiero Pulcini, cui abbiamo chiesto di scrivere ciò che più gli aggrada su alcuni produttori con cui si trova in sintonia, visto che con pochi tratti la sua penna sa ritrarli ed estrarre l’essenza del loro lavoro.
Conosco Antonio Camillo da dieci anni; più volte ho avuto occasione di parlarne in pubblico trovandomi a dire cose diverse sui vini ma non su di lui, testimoniando la fermezza nel restare fedele ai valori di integrità e trasparenza. Dopo tante conversazioni private, profonde e libere, mi è venuto istintivo associare Antonio alla parola ‘travaglio’ nel completo ventaglio polisemico.
Nell’accezione di lavoro (il francese travail, lo spagnolo tabajar) in cui egli esprime e ritrova se stesso: lanterna capace di schiarire i momenti più bui, pretesto per mettersi in discussione, persistente stimolo a imparare. Travaglio come sofferenza emotiva, fil rouge di tanti passaggi esistenziali intessuti alla biografia di un uomo dalla sensibilità vibrante, ascoltatore formidabile, coraggioso nell’affrontare i propri trambusti e pronto a immedesimarsi in quelli di chi gli è accanto. Un patimento empatico che ha spesso annunciato – quando non innescato – la nascita di svolte professionali e personali.
In lingua inglese, infine, la radice semantica della parola volge al viaggiare (to travel) nel significato originario di esplorazione esposta all’ignoto, all’incertezza che ne deriva. Non c’è bisogno di prendere un aereo, di proiettarsi lontani chissà quanto: viaggiare è anzitutto uno stato mentale, una libertà d’animo nel posare sguardi nuovi tra le pieghe del consueto.
Più ama la Maremma meridionale, più Antonio ci viaggia dentro cogliendo connessioni inedite, credibili perché ancorate a un radicamento lucidissimo: una postura intellettuale che ne traghetta la visione vitivinicola verso orizzonti mobili e sorprendenti. Ribadita la passione per il Ciliegiolo, sondato in ogni possibilità espressiva, Antonio ha puntato il timone in direzione di due varietà bianche (Vermentino e Procanico) e altre due rosse (Carignano e Grenache).
Sul Vermentino la sfida è offrire un bianco spensierato eppure carico di pensiero, facile da bere senza scadere nel futile. L’aderenza a un’idea alternativa – più sassosa che marina – di questo vitigno amico del caldo va plasmandosi con definizione crescente, grazie all’entrata a regime di nuovi impianti intenzionalmente dimorati a sud-est di Manciano e alle porte di Sovana. La delicata modulazione del contatto con le bucce tende a un’estrazione che dia polpa ma non imbrigli l’agilità.
Il Procanico è ottenuto da una singola vigna di due ettari nei pressi di Pitigliano su un ventilato altopiano dominato dal monte Amiata, con tufo vulcanico e piante di settant’anni. Rapidamente divenuto cardine della gamma aziendale oltre che riferimento ineludibile nel panorama nazionale dei bianchi macerati, è questo un vino agreste e aristocratico al tempo stesso, che fonde la veracità a un contegno compassato, persino austero, lontano dall’omologazione degli ‘orange’ modaioli monopolizzati da note chiassose e ossidate. La solarità del Procanico di Antonio Camillo – che fermenta e matura in cemento – promette invece di sviluppare negli anni una ricchezza stratificata, annunciata in gioventù da un impatto lievemente ruvido pronto a distendersi su sensazioni floreali e campestri avvinte a una traccia salina nitidissima.
Carignano e Grenache abitano questo lembo di Toscana sud-occidentale da secoli, indicati con chissà quali nomi, piantati promiscui in orti domestici e assemblati al Ciliegiolo in funzione di autoconsumo. Ogni tentativo di ricostruirne il percorso storico non porterebbe che a una molteplicità di ipotesi, tutte plausibili, data la capillare circolazione che le piante – come le persone e le idee – hanno sempre avuto in ambito mediterraneo. Il proporli distinti, in purezza, nasce dal desiderio di dar voce a potenzialità inespresse del territorio partendo da materiale già presente e mai adeguatamente valorizzato: un’operazione culturale intrapresa con orgoglio, tesa a trarre il nuovo da un recupero, ennesima conferma di come lo strumento più costruttivo per tener desta una consuetudine stia in un approccio aperto e circostanziato.
Il “Grané” (Carignano) nasce su argille arcigne in località Montarlese e affina in cemento; restituisce senza sgarbi la durezza delle origini tramite una potenza mitigata dall’essenzialità del tratto. Il contegno riservato, apparentemente trattenuto, distilla una generosità declinata in note balsamiche e vegetali contornate da un alone di brace. Materico e cerebrale, fa da perfetto contraltare al “Tinto di Spagna” (Grenache), compagno di vigna ma elevato in tonneaux: carnoso, avvenente, cesellato da profumi di frutti rossi e spezie, stempera l’esuberanza tattile con movenze aggraziate. Bisognoso di tempo, ma è un’attesa che si è disposti a concedere data la concretezza di certe promesse.
Il “Mediterraneo”, infine, è apertura e chiusura del cerchio: vino-manifesto, uvaggio di Ciliegiolo, Carignano e Grenache, inno alla feconda contaminazione tra diversità compatibili. Disinvoltura e originalità tenute a braccetto, finalizzate a una disarmante fluidità di beva. Un mosaico entro cui ogni tassello dialoga con l’altro mettendo i propri colori al servizio del colpo d’occhio complessivo. Se il profilo organolettico rende omaggio alla storia nobile del “mare tra le terre”, la scelta commerciale del suo autore ingloba una reazione alle inaccettabili sofferenze che oggi ne infamano le acque: 30 centesimi di euro per ciascuna bottiglia venduta – un piccolo messaggio di speranza idealmente arrotolato all’interno – sono devoluti in favore della “Life Support”, la nave di soccorso per naufraghi di Emergency attiva tra le coste italiane e africane. Non potrebbe immaginarsi un modo altrettanto concreto per proiettare un travaglio (lavoro, compassione, percorso) tra le onde tumultuose della contemporaneità.
Mentre le etichette di “naturale”, “artigianale” o “tradizionale” appaiono oggi quanto mai scivolose da applicare, vien da definire i vini di Antonio Camillo come “reali”: refrattari a incasellamenti di comodo, intrisi di buon senso, frutto di una materia prima trattata con rispetto e perciò sana, liberi dalla zavorra di velleitarie forzature interpretative. La pertinenza agronomica e antropologica al contesto di riferimento restituisce un senso di ordinata spontaneità, di personalità tradotta in spirito di servizio al convivio che li rende modelli di utile, dinamica classicità.