Non esiste conflitto di interessi più grande di quello affettivo.
Essere legati a qualcosa o qualcuno significa a tratti abusare dell’abilità propria degli illusionisti, che permette di nascondere le cose peggiori mostrando ai nostri occhi solo il bello. Questo piccolo inganno che rivolgiamo a noi stessi è un meccanismo naturale che ci aiuta ad andare avanti tenendo duro anche nei momenti non favorevoli. Premessa era doverosa perché l’oggetto di questo scritto è per me un amore folle: il Lambrusco.
Per noi modenesi è molto più di un vino perfetto per accompagnare la meravigliosa cucina locale: è una sorta di specchio che riflette perfettamente un’indole gioiosa e una vita divisa a metà tra farsi il mazzo e saper far festa – permettetemi di dirlo – come pochi altri sanno fare.
Ogni volta che parlo del Lambrusco mi vengono in mente le parole che lo chef Joel Robuchon mi disse nel suo ristorante di Parigi quindici anni fa servendomi un piatto di spaghetti al pomodoro: “Le cose semplici sono in assoluto le più difficili da fare”.
Se ci pensate, non è facile bere qualcosa che sia immediato senza essere banale: deve essere una esplosione di frutta senza essere stucchevole e allo stesso tempo confortare senza essere ruffiano. Spontaneo e sincero, il Lambrusco non ammette supercazzole, non ti permette di arrampicarti sugli specchi, non lascia spazio ai distinguo né ai se e tantomeno ai ma. Qual che sia la tipologia, deve essere buono e poche pippe, come si dice da queste parti.
Le varietà più conosciute sono Lambrusco Grasparossa, Lambrusco di Sorbara e Lambrusco Salamino.
Il primo è tipico delle dolci colline di Castelvetro, grazioso paesino ad una manciata di chilometri da casa mia: il panorama che si può ammirare nei dintorni è uno dei più belli di tutta la provincia. Il Grasparossa è caratterizzato da una buona ricchezza di corpo, colore scuro e spuma abbondante: “vè sal spòma” (guarda come spuma), dicevano i nostri nonni esaltando questa qualità. I profumi sono intensi, a volte addirittura sfacciati con i suoi frutti di bosco, buona sapidità e freschezza aiutano a snellire il sorso facendo da contrappeso alla sua esuberanza, riesce a raggiungere vette di piacevolezza golosa difficilmente eguagliabili.
Il Sorbara è al contrario più ossuto e scarico di colore, introverso di natura e figlio di quelle nebbie invernali a nord di Modena che puoi tagliare con lo stesso coltello che si usa per il salame. La minore materia, la maggiore acidità ed i profumi più delineati ma meno impetuosi lo rendono meno approcciabile dai palati inesperti. Suo vicino di casa è il Salamino, ancora oggi un po’ schiacciato dalla maggiore popolarità degli altri, nonostante goda di un maggiore equilibrio generale almeno in uscita rispetto al Sorbara. Il suo nome deriva dalla forma particolare degli acini stretti e lunghi, che appunto ricordano il famoso salume.
Visto che non sono certo qua a farvi una masterlcass sul Lambrusco, vi evito le differenze di terroir e microclimi e dopo questa breve spolverata verrei al punto, visto che mi preme sottolineare che non sono solo rose e fiori.
Occorre partire da lontano dicendo che per molto tempo il vino era considerato dai più un alimento. Il modello produttivo mirava più alla quantità che alla qualità, producendo montagne di vino a prezzi contenuti e distribuendo ricchezza sul territorio a produttori e contadini. Le grandi quantità da una parte hanno permesso al Lambrusco di veder consolidato il suo nome ma dall’altra di essere incasellato (complici anche le versioni amabili, con un residuo zuccherino ben evidente) come qualcosa che sta a metà strada tra una bibita e un vino.
Ora le cose sono cambiate e forse le grandi realtà se ne sono accorte troppo tardi creando una grossa crisi in tutta la denominazione, crisi che si è tradotta in un crollo dei prezzi delle uve.
Negli ultimi anni, un numero sempre crescente di nuovi produttori si è affacciato sul mercato con progetti più o meno chiari. L’offerta si è allargata parecchio, non sempre aiutando il consumatore a farsi un’idea sulle proposte e sul reale valore dei vini. Questo è un peccato perché le realtà che lavorano bene non mancano.
Uno dei motivi principali di questa confusione è dovuto al fatto che il Lambrusco può essere prodotto con metodo Charmat, con la rifermentazione in bottiglia senza sboccatura nonché nella versione metodo classico, quindi capite bene che perdersi è un attimo, anche perché la forbice di prezzo è piuttosto ampia.
Ma anche qua c’è un problema nel problema: questo vino che nasce popolare sia per carattere che per prezzo, andando contro quelle che sono le sue origini, paradossalmente oggi è più apprezzato dall’intenditore che dal bevitore comune.
Dico tutto questo perché troppo spesso sento la frase: “Se devo spendere queste cifre per un lambrusco allora compro un Franciacorta“. Accostamento comprensibile seppur inutile e improprio, perché carattere e bevibilità dei vini sono completamente differenti.
Nonostante io sia cresciuto a pane, salame e Grasparossa, da una quindicina di anni il mio cuore batte per il Sorbara, che si distingue dagli altri non tanto per qualità o bontà ma per le straordinaria capacità evolutiva che è colpevolmente trascurata, ahimé sopratutto dagli addetti ai lavori.
La categoria dei produttori non è senza colpe perché comunicare il vino sta in primis a loro e la voglia o il bisogno di fare cassetto non hanno permesso di far conoscere al grande pubblico un vino che con la giusta spinta si troverebbe in una posizione ben più prestigiosa.
Visto che oggi mi sono svegliato con la voglia di farmi nuovi amici, dico che anche i ristoratori dovrebbero fare di più, e che ad oggi, tranne rare eccezioni, non hanno saputo cavalcare questa crescita qualitativa spingendo la clientela nella giusta direzione.
I Sorbara buoni hanno bisogno di bottiglia. Questa cosa dovete capirla voi e farla comprendere a chi si siede alle vostre tavole. Altrimenti è come avere una macchina da corsa tra le mani e tirarla fuori solo la domenica mattina per andare a comprare il giornale. Ribadirò questo concetto più volte anche negli assaggi perché credo sia il punto cruciale della questione, il passaggio fondamentale per sdoganare il Sorbara e smetterla di vedere questi vini come qualcosa di prêt à boire o con una data di scadenza. Se noi per primi non diamo importanza ad una varietà che ne ha da vendere, temo sarà per tutti un’occasione sprecata.
Ma veniamo all’oggi.
Ho visitato tre produttori di Sorbara.
Il criterio utilizzato per la scelta è stato quello di raccontarvi qualcosa su un’azienda storica, su una consolidata e su una emergente, seguendo esclusivamente quelli che sono i miei gusti.
I risultato è stata una prova di quelle che sono le potenzialità purtroppo ancora inespresse del Lambrusco di Sorbara.
Con tutti i produttori siamo andati a ritroso con le annate confermando ancora una volta quello che ho scritto sopra: IL SORBARA È UN VINO BUONO IN GIOVENTÙ E FANTASTICO SE ATTESO QUALCHE ANNO.
Podere il Saliceto
Seconda visita da Podere il Saliceto, dove ho apprezzato molto lo stile spontaneo di Gian Paolo Isabella. Ho avuto l’impressione di essere con un vecchio amico a parlare non solo di vino ma di molto altro, mentre Marcello Righi, suo socio, riceveva altre persone.
La cosa che mi ha colpito di più è vedere come il suo approccio e la sua determinazione si rifletta sui vini: ragazzo franco e diretto che non ha nessun imbarazzo a dire ciò che pensa. “I Lambruschi da 10,5 gradi mi stanno sul cazzo!“: Gian Paolo esordisce così, volendo sottolineare che è ora di smetterla di considerare il Lambrusco un vinello. Tutto ciò è musica per le mie orecchie e ho subito netta la sensazione di essere nel posto giusto al momento giusto.
Mentre siamo in vigna mi dice che crede fortemente nelle basse rese per dare più concentrazione ai vini, cosa di cui mi renderò conto durante gli assaggi. Questa è stata la visita che definirei più sorprendente perché la batteria mi ha spinto diverse volte fuori da mio orticello di certezze, alcune volte con esiti positivi, altre meno ma mai lasciandomi indifferente, musica per le orecchie di uno come me che crede che il carattere nel vino sia la cosa più importante.
In più, a lui va il merito di avermi riappacificato con il Salamino, che non aveva ancora mai fatto breccia in me. Ho trovato il suo Albone così buono che non esito a metterlo in cima alle mie preferenze della giornata. Dopo aver portato il tavolo all’aperto sotto il sole, siamo partiti con l’assaggio del Bi Fri, un rifermentato in bottiglia da sauvignon blanc (30%) e trebbiano modenese (70%). Agrumi e note vegetali, bianco di grande freschezza e buona sapidità: le note ben presenti di sauvignon danno quel tocco straniero che incuriosisce.
Mentre parliamo di boxe thailandese che appassiona entrambi (e che lui ha praticato ad alti livelli), cominciamo una verticale di Falistra, Sorbara in purezza rifermentato in bottiglia nelle annate 2023/2020/2018/2014.
Il 2023 di colore rosa intenso, fragola e sale, bocca impetuosa che con un po’ di vetro troverà il suo bilanciamento.
Il 2020 oggi è splendido, più complessità olfattiva dovuta al tempo e maggiore intensità, oltre alle sopracitate caratteristiche note di agrume e frutti maturi; il 2018, complice a mio avviso un tappo non perfetto, mostrava tracce evolute al naso ma un sorso vibrante. Cosa aspettarsi infine da un Sorbara di dieci anni? Il 2014 è un vino originale con nuances speziate, di ciliegia e caramello, vino dal fascino assoluto ma sicuramente non per tutti.
Abbiamo proseguito con il Chichin, un altro rifermentato in bottiglia a base di Lambrusco Benetti, varietà tipica di Campogalliano, dal colore più carico e dal frutto più pieno. Era il mio primo assaggio e l’ho trovato interessante, sono curioso di risentirlo in solitaria per farmi un quadro più chiaro.
Nella vita occore fare piani solo per poterli stravolgere come occorre avere idee solo per poterle cambiare, questo ho pensato quando Gian Paolo mi ha versato l’Albone, lambrusco salamino fatto con metodo Charmat, vino succulento e goloso, con una spiccata personalità dove emergono frutti di bosco, buona sapidità e personalità. Dopo il 2023, ho assaggiato un 2018 che dava l’idea di voler giocare in un campionato differente da quello del Lambrusco, vestendo più i panni di un vino rosso con le bollicine. Questi due sono stati quelli che mi hanno colpito di più. Chiudiamo con il Malbolle, un metodo classico di malbo gentile decisamente fuori dal coro, piccante e floreale con note di bergamotto e dalla bollicina aggraziata.
Tutti gli assaggi sono stati accompagnati dalle basi ferme in modo da avere un’idea più completa del prima e del dopo, mostrando una bella coerenza. Podere il Saliceto non è certo una novità ma questa visita mi ha fatto capire meglio il motivo del riscontro che ha tra gli appassionati, giocando su prodotti diversi legati da un comune denominatore che è la concretezza.