È una limpida mattinata primaverile d’inizio marzo quando arrivo da Bele Casel a Caerano San Marco. Ci sono Danilo Ferraro, classe 1953, con i figli Luca (del 1977) e Paola (del 1990). “Bele Casel” era il soprannome di un vecchio amico di famiglia. «I miei facevano un altro lavoro, papà era rappresentante e la mamma segretaria» racconta Paola. «Inizialmente la cantina si chiamava La Contea, poi a mia madre è rimasto impresso il nome Bele Casel e l’abbiamo usato. In inglese suona bene e se gli americani riescono a pronunciarlo lo vendi anche meglio», dice con un sorriso.
Il ColFóndo viene prodotto dal 2008. L’anno prima Luca, vignaiolo conosciuto anche per la sua attività di comunicatore, ne aveva assaggiato una bottiglia prodotta in casa da un amico: non aveva mai bevuto un Prosecco così buono. Quando torna a casa ne parla con entusiasmo al padre e lo convince a riprendere la produzione che in famiglia si portava avanti da generazioni.
(Ho conosciuto anch’io il “vin col fondo” del trevigiano così. Ma a Milano, per quanto strano e paradossale possa sembrare. Quando andavo al Consorzio Tutela Conegliano Valdobbiadene di Pieve di Soligo per assaggiare i vini per la Guida Espresso, e ci andavo tutti gli anni, di Colfóndo non c’era traccia e nessuno ne parlava, come se fosse un tabù. Avrei scoperto in seguito che a Milano e provincia non sono in pochi quelli che vanno sulle colline di Valdobbiadene a comprarsi la damigiana di Prosecco per imbottigliarselo in primavera).
Dal 2019 l’Asolo Prosecco ColFóndo è diventato l’Igt ColFóndo Agricolo, ma l’etichetta è sempre la stessa, con la parola ColFóndo (dall’accento rigorosamente acuto come il vino che rappresenta) messa a testa in giù. Nasce da un ettaro e mezzo di glera e di altre vecchie varietà locali (bianchetta, perera, rabiosa) sulle colline scoscese di Monfumo, il terroir più vocato dell’Asolano (suoli marnoso-argillosi di colorazione grigia), più una vigna in affitto in località Castelli di proprietà di Alessandra Cappellotto, prima donna nel 1997 a diventare campionessa mondiale di ciclismo su strada.
Contrariamente alla prassi aziendale, secondo la quale “se non rimescoli la bottiglia, è un godimento a metà”, chiedo di non agitarla: sono per la purezza del gusto, specie di fronte a una verticale.
Il 2021 (tappo a corona come il 2020 e il 2019, secondo il decalogo del ColFóndo Agricolo) ha colore paglierino leggero, un naso di muschio, fiori, agrumi, un palato succoso e focalizzato, fresco-cremoso, scandito da una carbonica crepitante, dal finale asciutto, saporito.
Il 2020, di colore più intenso, ha profumi linfatici, erbacei, vegetali, quasi di sedano. Uhm. Apriamo un’altra bottiglia. L’olfatto è più nitido, aperto, il palato succoso, tonico, sapido, teso, cristallino. Che cosa è successo? «Ho capito che non ho capito» confessa candidamente Danilo riferendosi alla differenza, talvolta sostanziale, che si riscontra tra due imbottigliamenti. Qualche anno fa mi aveva detto un’altra cosa illuminante, e sincera: «La verità è che non tutte le bottiglie rifermentano allo stesso modo e il Colfóndo è un vino che evolve in continuazione. Muta continuamente, è meteoropatico, se lo assaggi quando piove è un vino diverso. Un’altra cosa che non riesco a capire è la seguente: partiamo da basi molto simili nel colore ma quando stappiamo lo stesso vino da bottiglie diverse i colori non sono più omogenei. Credo dipenda dal lavoro del lievito, come riparte, come si conserva, come si moltiplica. Non so». È la sintesi dei processi misterici e degli aloni d’imprevedibilità che questo vino vivo porta con sé e che lo rendono affascinante, unico.
Il 2019 è trionfo di brillantezza: colore paglierino squillante; verve olfattiva di orto, basilico, erbe, freschezza d’agrume, muschi; palato che è tripudio di succo e tonicità, l’effervescenza ha la scansione secca di un clavicembalo, il sapore si allunga verso desinenze di pesca, di caco.
Il 2018 (tappo a fungo) ha sfumature dorate al colore, il naso è un po’ fermo, marca un che di evoluzione, il finale diventa più teso e tirato.
Il 2017 (tappo a corona) ha colore paglierino intenso e brillante, dalla fascinosa opalescenza, l’olfatto ha complessità, sfumature, il palato una gaia, viva carbonica crepitante, lo sviluppo gustativo è di sapore e tensione.
Il 2016 (tappo a fungo) ha colore brillante e meno velato, i profumi marcano l’evoluzione, il palato sfodera succo, tonicità, una carbonica di crepitante leggiadria, lo sviluppo gode di contrasti, il finale è dritto, salino.
Il 2015 (tappo a corona) ha muschio, fiori bianchi, glicine, il palato presenta qualche rugosità, ma il finale è tutto in freschezza e dinamismo.
Il 2014 (tappo a fungo) ha colore intenso e brillante, evoluzione di muschio e sapone di Marsiglia, il sorso ha pienezza ed evoluzione di foglie autunnali, con finale di cedro candito.
Il 2013 (tappo a corona) sfoggia un colore intenso e brillante, un naso di note idrocarburiche, una bocca cremosa, tonica, pimpante, persistente.
Il 2012 (tappo a fungo) ha colore dorato e opalescente, sentori di biancospino, di foglie autunnali, di cedro candito, di note balsamiche come certi vecchi Moscati, e un palato di notevole espressione: buccia d’agrume, cedro candito, muschio, balsami, erbe quasi aromatiche. Che profondità!
Il 2010 (tappo a fungo) ha colore dorato-opalescente, profumi di evoluzione (vaghi sentori di frutta secca), un sorso succoso e contrastato, dal côté autunnale, con allungo sapido-acido.
Il 2009, infine. Tre bottiglie aperte con tappo a fungo dall’evidente stato di ossidazione. Poi ne arriva una prelevata dal bancale più in basso, quindi meno esposto al caldo, con tappo a corona. Colore paglierino brillante, note balsamiche, di fieno, di alloro secco al naso e un palato che avvince per succosità, nitidezza, sapore, tensione. La carbonica è epidermica, compenetrata nel tessuto.
«Al tempo ero in contatto con un ex compagno di classe impallinato con i microorganismi» racconta Luca, «e abbiamo inserito nel vino delle capsule di ceramica con dentro dei microorganismi che avrebbero dovuto conservarlo nel tempo. Il tappo a corona è stato una conseguenza di questo, l’abbiamo usato anche per comodità, ma la morale è che avremmo dovuto iniziare da subito con questa chiusura: il tappo a fungo tende a incidere di più, a rovinare il vino anche senza TCA».
Si chiude con un Asolo Prosecco Superiore Dry 2015 (25 grammi/litro di dolcezza residua) in perfetta salute: integro e fresco come se fosse stato imbottigliato l’anno prima. Lineare, morbido, gustoso.