Una sera di autunno un’anima buona ti offre un Clos de la Roche 2010 di Chantal Remy, e vieni trasportato in una strada di Bagdad del 399 d.C. Una strada piena di banchi di venditori di essenze. Il viaggio nel tempo è possibile, basta che il grado alcolico nel sangue tocchi gli 0,3 grammi per litro; rimanendo entro il valore di legge di 0,5 qualora uno debba poi condurre un mezzo meccanico.
Un detto cinese recita più o meno: “ringraziare significherebbe sminuire il dono”. Parafrasando, scomporre la nuvola di aromi del Clos de la Roche 2010 di Chantal Remy in lunghe risultanze notarili da scheda di assaggio – ambra, caolino, fava Tonka, Romilda, Jerry, aspic di petali di rosa, pellame conciato, e simili: un esercizio che è il marchio infallibile del degustatore mediocre – significherebbe sminuire la sua bellezza.
È proprio dei vini di simile bellezza regalare un passaggio fugace, dei segni effimeri, iridescenti. Dopo qualche tempo, indefinibile nel ricordo ma credo intorno alla mezz’ora, quella fontana di profumi si è lentamente attenuata. Ha iniziato a scintillare un po’ meno.
Non così nel ricordo.
A luglio mi chiedevo: è un caso, oppure i vini di quella regione, in generale, hanno davvero meno sviluppo aromatico di una volta? Anche loro hanno regalato un passaggio storico fugace, dei segni effimeri, iridescenti, e oggi sono un’altra cosa?