C’è stato un tempo in cui gli uomini vivevano senza guerre, senza bisogno di leggi, senza coltivare la terra – poiché essa offriva frutti in abbondanza – e senza necessità di case o ripari, nel tepore di un’eterna primavera. Per la mitologia romana era la leggendaria età dell’oro, l’aurea aetas in cui tutto galleggiava in una sospensione temporale felice. In quel tempo la Borgogna non era stata ancora risucchiata nel Pantheon delle figure culturali iconiche, come La Gioconda, la Quinta di Beethoven, il Taj Mahal. Era una semplice regione vinicola. Il lettore giovane che oggi sente aumentare il battito cardiaco al solo nome di Vosne-Romanée provi a immaginare come poteva apparire la Borgogna trenta o quaranta anni fa: nessuna divinità in forma di cru, nessuna luce accecante dalle etichette che costringesse all’uso degli occhiali da sole. Nessun divo in forma di vignaiolo, con tanto di manto di ermellino e scettro. Solo una semplice regione dove si coltiva la vigna e si fa vino.
Una tenuta ricca di storia, ma solo sfiorata dalle luci della ribalta che illuminano i grand cru borgognoni è il domaine Chantal Remy a Morey-Saint-Denis.
L’edificio, un elegante corpo di fabbrica di stile austero, ospita da generazioni la famiglia Remy. Attraverso le inevitabili suddivisioni ereditarie, l’assetto proprietario attuale è guidato da Chantal e dal figlio Florian, e accoglie poco meno di quattro ettari, con porzioni in vigne celebratissime: Chambertin, Latricières-Chambertin, Clos de la Roche. Madame Chantal è una persona di rara gentilezza, e – merce ancora più introvabile nel mondo del vino, dove molti si sentono Michelangelo Buonarroti – anche di rara modestia e discrezione.
Le parcelle illustri del domaine meritano senz’altro una visita, ma è il giardino interno della casa di Place du Monument 1, in pieno centro a Morey, che riserva la scoperta più sorprendente. Qui in passato erano presenti alcuni filari di vite, secondo un’usanza non così insolita in Borgogna. Il nonno di Chantal aveva però preferito spiantarli, per rimpiazzarli con un roseto (e con un campo da tennis). Nel 2000 Chantal e la madre hanno quindi deciso di rimettere a dimora del pinot nero nello stesso punto. Stesso “punto”, perché la superficie è davvero minima: poco più di tremila metri quadrati, un terzo di ettaro. Ribattezzato Clos de Rosiers, attende con pazienza il riconoscimento di premier cru, che raggiungerà verosimilmente a breve, data l’età già matura dell’impianto. Solo un muretto divide il piccolo Clos de Rosiers dal Clos de Lambrays.
La tessitura del suolo è molto simile, lo stile del vino meno. Sebbene Lambrays abbia un profilo più slanciato, più delicato nella palette aromatica rispetto alle annate più tanniche e dense degli anni Duemila, il Clos de Rosiers è comunque in media più rarefatto, più quintessenziale, più ricamato. Ciò che concede in pienezza estrattiva e complessità di sfumature, si riprende in leggerezza senza peso, in trasparenza dei profumi e dei sapori. Attenzione: una leggerezza senza peso e tuttavia non vuota. Come accade misteriosamente ai migliori Borgogna, la leggerezza si accompagna a una grande intensità. Pare di guardare una partitura di Mozart: la pagina musicale appare semplice, senza densità, quasi bianca;“una scatola in apparenza vuota”, come è stata definita. Ma il suo contenuto, al contrario, è di una profondità eccezionale.