Dolcetto d’Alba 2017 , Emilio Vada, 14 gradi.
“A Peveragno, ricordo, un pomeriggio di marzo, in un’osteria infima, vidi entrare un mendicante, un vecchio vagabondo di quelli che ormai non se ne vedono più: aveva a tracolla due o tre tascapani rigonfi, una gavetta, una padella, una mantellina grigioverde arrotolata. Sedette in un angolo, vicino alla porta vetrata. Tirò fuori un pezzo di pane, e ordinò, non senza una certa solennità, ” mezza stupa”. Non disse, naturalmente, la qualità. Non dire la qualità significa, in quei luoghi, dire Dolcetto (…)”
Vino al Vino, Mario Soldati, autunno 1968.
Il Dolcetto, si sa, non è per nulla dolce.
Anzi, riesce addirittura amaro per un’incomprensibile perdita di affezione, fotografata da numeri impietosi: in vent’anni gli ettari vitati sono scesi da 5.600 a 3.800, le bottiglie da 27 a 20 milioni.
C’è stato però un tempo nel quale era il vero traino della viticoltura langarola e cuneese, spuntando talvolta, persino, prezzi più alti del Nebbiolo e rallegrando, nel secondo dopoguerra, i pasti della borghesia lombarda e piemontese.
Il Dolcetto, per me, è casa, al pari del Chianti: quelli i tipi che ricorrevano più sovente sulla nostra tavola, quand’ero bambino. Ricordo ancora la cucina lunga e buia della vecchia casa nel centro di Milano, che lasciammo prima della mia terza elementare: la luce gialla della lampadina a incandescenza evidenziava il vapore che saliva dai piatti: la minestrina in brodo coi capelli d’angelo, il lesso, l’insalata di cicoria selvatica; al centro, la bottiglia di Dolcetto d’Alba della Cantina Sociale.
“Si sa com’è il Dolcetto: un profumo nascosto, quasi malinconico“: scriveva ancora Soldati.
Negli anni il Dolcetto ha accompagnato, per me, momenti di amicizia, incontri romantici, istanti di solitudine: conversazioni, sguardi, silenzi. L’ho studiato, ho imparato a descriverlo in termini tecnici, a distinguerne la provenienza, a valutarne la qualità. In lui, felicemente, mi sono perso e l’ho amato: perché è un vino nudo, di memoria e di pensiero.
La vera nudità, quella dello spirito, spaventa; la memoria è un morbido guanciale, talvolta; più spesso, un grido d’accusa: “Un giovane dolcetto ha sempre, nella sua posatezza, qualcosa di vecchio”.
Il Dolcetto è uno specchio, senza infingimenti: è vino-vino, essenziale nella sua funzione: non permette ostentazioni, rifugge esoterismi. Perciò il Dolcetto – oltre le dinamiche commerciali – è fuori moda: per la sua onestà.
Guardando tuttavia in quello specchio, senza paure, si vedrà che il Dolcetto, declinato in tre DOCG e nove DOC, può stare nell’Olimpo dei vini con voce grande e originale, senza fare la voce grossa; e, soprattutto, regala gioie che hanno la bellezza della semplicità.
Se questa è la tesi, il Dolcetto d’Alba di Emilio Vada ne è la dimostrazione. Mi folgorò al primo assaggio, a un Mercato FIVI, qualche tempo fa. Che nasca da un vignaiolo vero, di giovane generazione, che ha convinto la sua famiglia a trattenere parte delle uve da decenni conferite, è forse consequenziale: un atto di coraggio e di onestà verso se stessi e le proprie capacità.
Si dice in Toscana: “Se un si va, un si vede“: Emilio Vada ha mostrato eccome la caratura del suo lavoro: Moscato, Barbera, Nebbiolo, Dolcetto, tutti buonissimi.
Quest’ultimo è coltivato tra Coazzolo e Mango, al confine tra Astigiano e Cuneese, tra Langhe e Monferrato, su suoli calcarei, franco-sabbiosi. La vinificazione segue un protocollo essenziale, tra acciaio e vetro: un vino sans signature, nel quale parla il territorio e l’artefice rimane dietro le quinte; testimoniano però la sua opera le rese di uva per ettaro: 50 quintali, contro i 90 ammessi dal disciplinare.
Qui con me, oggi, ho una bottiglia dell’annata 2017. Lo apro. Lo verso.
Nel mio vetro, rubino purpureo trasparente: bellissimo, luminoso; su di esso, gocciole molto fitte, regolari, lente.
Il profumo è intensissimo: molto complesso, giovanile con un principio di evoluzione, suggerisce polpa e materia.
È una fantasmagoria vegetale ed arborea, un sogno di mezz’estate aperto da un trionfo di frutta: nettissimo il gelso nero, poi fragolina, susina polposa, duroni sotto spirito, melone, cocomero; quindi, come una girandola scoppiettante, erbe aromatiche, spezie, balsami: alloro, rosmarino, prezzemolo, basilico, curcuma, zafferano, corteccia d’eucalipto, fieno. Con le ore, chiudono il corteo, eleganti e riflessive, rosa, viola, liquirizia.
Vino pastoso, di giusto corpo, molto saporito, esemplare per fittezza e finezza di trama.
Abbondantemente tannico e sapido, moderato in acidità, risolve la sua grande tensione interna in un equilibrio stabile per l’intera arcata del sorso, fin nel notevole allungo, obliando il grado alcolico.
Questo stupefacente Dolcetto, tra i più buoni da me assaggiati, possiede una dote rara e senza tempo: il senso della misura.
Gustato con piacere su hamburger di Casa Serra, lo immagino delizioso su taglierini al ragù di carne.
Fonte: Fede Bindi - Taccuin Divino