In Loira, dove il vitigno sauvignon trova una delle sue massime espressioni con Chavignol Sancerre di François e Pascal Cotat.
Per favore non chiamatelo Sancerre e neppure Sauvignon, perchè anche sé è un sauvignon di Sancerre questo è innanzitutto Chavignol, quanto di più lontano da un didattico sauvignon della Nuova Zelanda con il suo naso fasullo a prova di imbecille ma adattissimo ad un primo corso sommelier, e anche lontanissimo da molti sauvignon del nostro nord est dove si ha la sensazione che invece dell’influenza indotta naturalmente dal terroir sia stato il passaggio di gatti incontinenti a marcare il medesimo. Lontanissimo anche da quel liquido idro-alcolico insapore chiamato Sancerre servito in pessimi bar a vin e bar a huitres in tutta la Francia, dove solo l’acidità tagliente degna di un intervento di detartasi dentale sarà evidente sopra ad ogni altra cosa.
Questa è la storia di due cugini che hanno ereditato il mestiere dai genitori e portato avanti nel tempo la loro cultura e la loro tradizione, anche andando contro la legislazione francese, attraverso una scelta di linea produttiva conservativa, bloccata sulla tradizione ad oltranza mentre gli altri produttori dell’area avevano deciso ormai da tempo di abbandonarla, dimenticarla, sostituirla.
La famiglia Cotat ha sempre avuto la convinzione che il vero “terroir” si potesse identificare solo con il comune d’appartenenza e non con una più generica denominazione Sancerre, e così spesso evidenziarono in etichetta più il termine Chavignol che l’AOC Sancerre. Nonostante si trattasse di una palese infrazione alla legge francese sulle denominazioni d’origine questa situazione è andata avanti per anni. Un altro problema ancora più impellente da risolvere prima di quello relativo all’etichettatura era rappresentato dal luogo di vinificazione. Perché prima i fratelli Francis e Paul, poi i loro figli, i cugini Cotat, vinificavano sotto lo stesso tetto e poi uscivano sul mercato utilizzando due diverse etichette; e questo non è di nuovo ammesso dalla legislazione francese. La situazione irregolare proseguì fin quando Pascal non decise di trasformare il suo garage in una specie di cantina e poter così separare i distinti processi di vinificazione e quindi andare ad etichettare diversamente i loro vini conformemente ai requisiti richiesti dalla legge.
Oggi sotto le due etichette troviamo dunque i vini provenienti dai tre climat chiamati “ La Grande Cote”, “Les Culs de Beaujeu”, e “ Les Monts Damnès”. Terroir tra i più prestigiosi dell’appelation.
La produzione dai numeri molto limitati (circa 40mila bottiglie in due) è di stampo rigorosamente conservatrice ed artigianale. Una vecchia pressa in legno, botti grandi e vetuste, nessuna filtrazione (Ni collé, Ni filtré), lieviti indigeni, imbottigliamento con la luna piena, bottiglie verdine che sembrano quelle di un’acqua minerale con il sigillo in ceralacca.
Più semplice di così solo il mitico Edmond Vatan, la cui minimale e sobria etichettatura non ebbe eguali tra i grandi vini di Francia.
Il risultato di tutto questo ci porta nel bicchiere vini che innanzitutto sono in grado di sfidare il tempo con classe e disinvoltura insospettabili potendo andare ad affrontare alcuni decenni, come è il caso dell’ultimo Grande Cote 1989 di François che ho stappato non molto tempo fa. Ma la casistica ci dice che si può arrivare anche a 25 anni di invecchiamento senza che il vino ne soffra, anzi, la complessità aumenterà gradatamente .
Pascal Cotat, come il padre Francis, prosegue nella tradizione famigliare che ha sempre prediletto le vendemmie piuttosto tardive, così ottenendo vini untuosi e saltuariamente con qualche traccia di residuo zuccherino. Con il passar del tempo questi vini assumono sfumature molto diverse e a volte sorprendenti se paragonate al varietale, nel senso classico in cui lo intendiamo. Caratteri coerenti ma meno evidenti nelle vinificazioni di François, che possiede parte dei medesimi terreni del cugino, avendo solo un po’ più di Culs de Beaujeu.
Le sensazioni più costanti avvertibili in questi vini sono figlie delle caratteristiche dei terreni, che non sono molto uniformi e localmente sono definiti in questi termini ed in queste proporzioni: 35% Caillottes, 15% Grillottes e 50% Terre bianche. Difficile, come è giusto che sia in un grande vino di terroir, individuare facilmente i descrittivi evidenti, agrumi come il pompelmo o il bergamotto possono lasciare spazio ad un lieve ananas, o al delicato melone offuscato dalla prorompente mineralità da polvere da sparo che potrebbe sfociare con il tempo in sensazioni di terra vicine al tartufo nero o alla radice di liquirizia per deviare ancora sul salmastro.
Una curiosità è rappresentata dall’introvabile rosè di Pascal, ricavato da un orticello di 0,1 ettari di pinot noir, mentre le proprietà totali dei due fenomeni di Chavignol sono di 6,3 ettari. Tuttavia, i loro vini sono discretamente reperibili. Più di una volta ne ho ordinati presso qualche caviste provenzale che me li ha fatti arrivare senza problemi, anche in verticali di parecchie annate conservate splendidamente. I prezzi delle annate vicine sono piuttosto tranquilli, (35-50 euro) mentre volendo avvicinarsi alle grandi annate quali appunto la 1989 bisognerà fare i conti con la giusta rivalutazione.
Fonte: Roberto Mostini - Reporter Gourmet