La denominazione italiana più venduta nel mondo ha contorni larghi, che meritano di essere approfonditi. Numeri e assaggi riservano interessanti sorprese.
Il Prosecco è un vino che si produce in Italia. Non solo: è un vino bianco. Quindi non è un vino rosso. Questo era, in buona sostanza, il livello di conoscenza che avevo della famosa denominazione. Un discreto errore professionale, cui ho provato a porre rimedio, almeno in parte. Cercando di capire su quali punti di forza faccia leva lo straordinario successo di questo vino, quali corde tocchi nei bevitori dell’intero globo terracqueo, quale forza motrice gli permetta di accelerare e superare, nei mercati nazionali e internazionali, pressoché tutte le altre tipologie di vini cosiddetti “mossi” (ovvero frizzanti o spumanti). Il tutto a dispetto di un modello stilistico in apparenza semplice. Semplice in maniera quasi disarmante. Nella media, e per le varianti più diffuse del Prosecco: un colore leggero, dei profumi immediatamente apprezzabili di fiori e frutta fresca, una spuma carbonica generosa, un sapore diretto, morbido, e una chiusura tenuemente zuccherina. La spiegazione è forse altrettanto ovvia: la qualità nella semplicità è la pietra angolare della fama planetaria di questo bianco.
A causa dell’orrido coronavirus e delle conseguenti restrizioni agli spostamenti interregionali non ho potuto rivedere le celebri colline di Conegliano e Valdobbiadene. Un peccato, perché sono veri gioielli paesaggistici, accolti con saggezza nel Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco nel 2019. Non ho potuto parimenti fare visita a qualcuno delle centinaia di produttori della zona. Ma ho potuto rinfrescare la memoria sensoriale assaggiando decine di nuovi Prosecco. Certo, ho appena sfiorato la superficie di un iceberg produttivo imponente. Una vera e propria macchina da guerra in termini viticoli, vinicoli, promozionali. Quasi 600 milioni di bottiglie offerte al mercato mondiale ogni anno. Un’immagine straordinariamente vincente. Piazze estere in delirio. Champagne e altri vini “mossi” stracciati nella competizione, soprattutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Case vinicole straniere che cercano di produrre disperatamente Prosecco ovunque, dall’Australia alla Bulgaria, dalla California alla Terra del Fuoco.
A conti fatti, il Prosecco è dunque un continente, più che un tipo di vino. Per capire cos’è davvero una bottiglia di Prosecco, disincrostandola dagli strati di stereotipi che la appesantiscono, ci vorrebbe quindi uno studio monografico. Qui mi limito a dare qualche strumento interpretativo in più ai due estremi della platea di bevitori: all’enomaniaco che ironizza sul “prosecchino”, da un lato, e al consumatore distratto che si fa servire una qualsiasi soluzione idroalcolica effervescente al ristorante o al wine bar senza controllare che sia effettivamente Prosecco. Per questo mi tengo all’essenziale, ai macroelementi centrali. Che trascrivo di seguito.
Per cominciare, mai urtare la sensibilità dei produttori della regione confondendo le denominazioni Prosecco (Doc, circa 500 milioni di bottiglie e un oceano di vigneti di pianura) e Prosecco Superiore (Docg, oltre 90 milioni di bottiglie, in gran parte da vigne collinari); nonché, sempre all’interno della denominazione d’origine controllata e garantita, Asolo Prosecco, Conegliano Valdobbiadene Prosecco (e la pregiata sottozona Cartizze).
Mai poi citare a sproposito il nome della base ampelografica, che è l’uva glera (anche se a quanto mi risulta è in corso un sanguinoso confronto tra fazioni che intendono usare il termine “prosecco” anche per il vitigno: soprattutto all’estero, dove il termine fa gola a battaglioni di produttori). Meglio soffermarsi poco, poi, sulle specifiche burocratiche delle differenti declinazioni produttive: Superiore, Superiore di Cartizze, Superiore Rive, più altre eventuali specifiche di singolo cru. Sconsigliato anche avventurarsi nel casse-tête delle tipologie: Extra Dry (la versione più nota, con un residuo zuccherino da 12 a 17 grammi per litro), Dry (più dolce, fino a 32 grammi), Brut (la meno dosata, fino a 12 grammi), Demi-Sec (in sostanza dolce: fino a 50 grammi), frizzante e pure tranquillo (la forma più antica); da Metodo Classico (raro), da Metodo Charmat (prevalente), da rifermentazione in bottiglia o Colfondo (particolamente di moda tra i conoscitori più esigenti). Scivoloso, infine, addentrarsi sulle politiche commerciali, che come per molte altre tipologie italiche hanno luci e ombre. Il trionfo travolgente del nome Prosecco fa convergere nel lucroso affare della doc grandi imbottigliatori, che tendono per loro natura mercantile ad abbassare i costi, e che non si curano proprio con scrupolo certosino del livello dei vini. Mentre l’insieme delle aziende della docg ha in media altri standard e altri obiettivi qualitativi.
Messi in fila questi paletti, ho condotto alcune degustazioni mirate. Privilegiando i campioni coperti dall’ombrello della docg centrale, Conegliano Valdobbiadene, che ospita il numero maggiore di bottiglie qualitativamente valide dell’universo Prosecco. Con qualche rapida ma credo significativa incursione nel Prosecco d’autore, vale a dire il Prosecco che cerca di percorrere strade stilistiche più originali, e che merita la massima attenzione da parte dell’appassionato. In quest’ultimo campo una nuova generazione di vignaioli sta sperimentando strade nuove, e si impegna in modo caparbio per innalzare il livello della produzione, sia nella gestione agronomica che in quella di cantina.
Gli assaggi hanno messo in evidenza la costanza del modello produttivo del Conegliano Valdobbiadene, la sua capacità di muoversi su uno standard fatto di precisione formale – tutti i vini hanno sfoggiato un’esemplare pulizia aromatica -, di una notevole omogeneità nell’assetto “aromi floreali e fruttati/spuma generosa/equilibrio nei sapori”, e insomma di una coerenza nel modello proposto che consente al consumatore di scegliere una bottiglia della relativa Docg trovando regolarmente ciò che si aspetta in partenza.
Proprio questa costanza negli esiti, tuttavia, sembra lasciare margini a un ulteriore progresso in termini di qualità e incisività dell’offerta. Ora che l’espansione commerciale ha raggiunto una dimensione planetaria, interessando sia i canali distribuitivi della gdo che le tavole dei ristoranti stellati, per “aggredire” la fascia elevata e rarefatta degli enofili più esigenti non parrebbe inopportuno raffinare ancora di più i contorni della silhouette dei vini. In questo senso la valorizzazione dell’apporto di altre varietà locali – bianchetta trevigiana, perera, marzemina bianca, eccetera – potrebbe verosimilmente aiutare nell’impresa di coniugare uniformità del modello e personalità più affermata della singola selezione.
Da bevitore, più che da addetto ai lavori, mi faccio quindi un paio di domande banali: la fisionomia dei Prosecco così come l’ho rozzamente circoscritta – con la sua ineccepibile pulizia esecutiva, la trasparenza del colore, l’immediatezza degli aromi floreali e fruttati, la soffice avvolgenza dei sapori – è un carattere costitutivo ed essenziale della tipologia? Oppure può essere la base, certo solida e già di grande successo, per un ulteriore salto di qualità? I prossimi tempi, e altre penne più esperte della mia nello studio della denominazione, diranno come stanno le cose.
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Asolo Docg Vecchie Uve 2016 Bele Casel
Colore giallo chiaro, effervescenza carbonica molto fine. In leggera riduzione sulle prime, poi con l’aria via via più aperto ed espressivo su aromi più minerali e “scuri” che fruttati. Gusto in linea, sapido, quasi salato, bell’articolazione e sicura progressione verso un finale vivo e modulato.