Da un po’ di tempo trascuro queste pagine, questo blog, questo contenitore di appunti e pensieri non sempre sul vino, ma sempre nati attorno al vino. Nel frattempo non ho mai abbandonato la passione per il liquido odoroso, per la sua capacità di accompagnare la mia vita, scandirne i momenti, sigillare istanti, mettere una firma su situazioni e congiunzioni.
Per me in questi anni il vino è divenuto anche sodale compagno della tavola, travalicando i confini angusti e ingiusti della degustazione per riapprodare alla sua vocazione originaria.Ormai si tratta per me di una abitudine spontanea e istintiva. Se penso a cosa preparare per cena immediatamente le sinapsi dedicate alla mia cantina personale si accendono e fibrillano, pescando il vino che vorrei chiamare all’appello, a condividere il percorso di una sera col cibo che preparerò. E talvolta le parti si invertono, ed il richiamo di un vino mi formicola in testa, spingendomi ad elaborare un’idea per il piatto da abbinare per godermi al meglio la bevuta.
Oggi privilegio la bevuta allo scrivere, lo confesso. E non lo faccio per un alcolismo incontrollato. La soglia dell’ebbrezza è un limite che non valico da parecchio tempo, e non ne sento la necessità. Sono spinto dalla ricerca del sapore, del ricordo, della connessione gustativo-temporal-geografico-umana, dal piacere appagante e stimolante di un sorso da scoprire e riscoprire. Per i vini sconosciuti, l’incontro è una tavola bianca da riempire, con sana curiosità e fantasia infantile. Per quelli già assaggiati è un riscoprire, perché ogni assaggio, ogni sorso, ha un sapore diverso. E questo vale per i vini non banalizzati e sciupati dalla tecnica. Vale per i vini artigiani, per i vini vivi. Vini che sono più di una bevanda, sono un estratto di storie, vite, territori, persone, giorni, eventi, e uva, certamente, con tutto il suo bagaglio di sostanza plasmato o accompagnato nella trasformazione dal sapere del produttore.
Un sapere che è sapere fare, ma anche lasciare fare, a volte. E’ sapere farsi da parte, e sapere attendere. Sapere agire al momento giusto per evitare problemi, alle piante come ai vini. E’ sapere ascoltare e sapere raccontare la propria idea di vino. A volte senza bisogno di parole, sarà il vino a parlare alla fine, se il sodalizio col produttore si sarà concretizzato. E’ sapere collaborare con la natura, la chimica, la fisica, il clima. In un mondo di leggi naturali sapersi adattare e farsi interpreti. E’ sapere intuire. E’ sapere vedere oltre, spesso. Ecco, il vino buono va oltre se stesso.Ti restituisce qualcosa di più, qualcosa di altro, qualcosa che è tuo e che è di tutti.
E per questo, forse, il vino sublima la sua essenza nel momento della condivisione. Quando si beve in compagnia scaturisce il confronto, il contatto di sguardi, il rimbalzare dal calice alla mente, dalla mente alle parole, dalle parole ai pensieri, dai pensieri a intuizioni e sorrisi. Bere non serve a dimenticare, piuttosto ad entrare in maggiore contatto con parti di noi troppo spesso celate. Attorno a una bottiglia di vino ho visto scaturire riflessioni profonde, esternare confessioni intime, scoprire le stesse cicatrici dell’animo e le stesse rughe scavate dal ridere.
E siccome su queste pagine si parla di vino mi piace raccontare di due esperienze. La prima una condivisione a due, in un pranzo di quarantena, partendo da un piatto e scegliendo il vino adatto. Ho preparato un risotto agli spinaci, con un tocco di noce moscata, e una mantecatura con formaggio erborinato allo Champagne, un formaggio francese trovato in GDO ma davvero intrigante e gustoso per consistenze e profumi. Per il vino la mente è andata ai Riesling della Mosella, in versioni con muffa nobile, fino ad un Auslese, con selezione di soli acini botritizzati. Vado sul sicuro con il Wehlener Sonnenuhr 2014 di Kerpen. Intenso ma senza stafottenza, elegante e ammaliante, di miele, mandarino, albicocche mature e camomille. Ha ritorni balsamici dolci, quasi di lavanda, e ancora tanto agrume dolce. In bocca è una fresca sferzata di acidità che nasconde una dolcezza presente e golosa. Il sorso è infiltrante e saporito, con cesellati accenni evolutivi su note minerali. Il gioco col piatto riesce perfettamente: un’alternanza di contrasti in equilibrio, un rincorrersi di sapori che non stridono mai, ma si rincorrono al palato, lasciando la voglia di continuare a mangiare e subito assaporare un altro sorso di nettare, a pulire e slanciare il palato. E guardandosi negli occhi il gusto e la soddisfazione si amplificano. L’intesa tra vino e cibo diventa intesa tra occhi felici.

Tutt’altra situazione ha visto l’assaggio che cerco di ricordare ora. Si trattava di una degustazione tra amici, una serata dove si alternano gli spazi del vino a quelli delle persone. Una serata dove la condivisione “del e attorno” al vino è massima prerogativa. Vino servito alla cieca, per parlarne senza condizionamenti d’etichetta, ma andando a seguirne il percorso solo attraverso i nostri sensi e sensibilità. Vino di immensa profondità ed eleganza, si è preso gli onori della serata e ci ha traghettato verso discorsi articolati, profondi, intimi. Intimi come il rapporto di questo vino col territorio che lo genera, con vigne venerande e terreni antichi. Questo vino ha un fascino magnetico e un’eleganza che detona in bocca in una scossa tellurica, dove un’onda di tannino setoso e fitto si trascina una mineralità sottile, un frutto scuro e una quantità di fiore appassito. Mentre scrivo mi accorgo come sia difficile trasmettere sensazioni, emozioni, percezioni che non possono che essere personali, da vivere, e al massimo condividere con altri scoprendo la bellezza di cogliere punti di contatto che trasformano un’esperienza così personale come l’assaggio in qualcosa di realmente condiviso. Note di iodio e incenso si fondevano, il finale lasicava una traccia di cenere e caffè, e mano a mano il vino lasciava il posto ai nostri pensieri. Per la cronaca, era il Vosne-Romanée 1er Cru Les Gaudichots 2015 di Forey, vicino e fratello del confinante La Tache. Vino di profondità e fascino, che ci ha fatto concentrare su di esso nonostante venissimo da un grandioso (davvero) Clos Vougeot 2002 di Drouhin-Laroze, bottiglia in stato di grazia, dove ci si poteva sbizzarrire in riconoscimenti cangianti e coccolarsi in una eleganza coinvolgente. Il vino è anche questo. Continuo stupore, zero reverenze, solo lasciarsi andare come bambini alla meraviglia ed esprimerla senza pudore.
Fonte: Matteo Carlucci - Il TaccuVino