Se il Pinot Noir fosse un luogo, godrebbe di panorami assoluti e di immagini indimenticabili. E basterebbe allungare lo sguardo per essere in viaggio tra Oriente e Occidente, tra campi di ciliegi, giardini in fiore e banchi di spezie.
Se il Pinot Noir fosse un luogo, si troverebbe ad altezze non plausibili, da raggiungere attraverso strade d’infiniti tornanti. E basterebbe alzare lo sguardo per ritrovarsi dentro un cielo colorato di numerose tonalità di blu.
Se il Pinot noir fosse un luogo, giacerebbe su un enorme, primordiale regione calcarea con dei vigneti in mezzo, l’argilla intorno e un fottuto vento occidentale che porta tormente di grandine. E basterebbe abbassare lo sguardo sotto pochi centimetri di terra per navigare tra miliardi di antichi fossili marini.
Quella regione nella realtà esiste e si chiama Borgogna. Ad essere pignoli, la Borgogna è stata una regione della Francia fino alla riforma amministrativa del 2014, che a partire dal primo gennaio 2016 l’ha inglobata nel nuovo distretto regionale di Bourgogne-Franche-Comté, nel quale per intenderci è incluso anche il territorio enoviticolo del Jura, verso est.
Podere della Civettaja
Si chiama Vincenzo Tommasi, persona meravigliosa, agronomo e vinificatore di talento. Qualche giorno fa l’ho intervistato per farmi raccontare della sua passione per il Pinot Nero e per la Borgogna, della sua esperienza di professionista e di interprete, della sua terra (Il Casentino), della sua azienda (Podere della Civettaja) e naturalmente del suo unico vino, un rosso ogni anno sempre più vitale, luminoso, imperdibile. Ebbene, oggi che l’Appennino toscano rivendica un ruolo niente affatto marginale nel panorama nazionale del vino d’autore, molti meriti vanno riconosciuti al lavoro di Vincenzo, al suo entusiasmo, alla sua ostinazione, alla sua ossessione, al suo esempio, al suo sogno. Oggi pienamente realizzato.
Vincenzo nacque il 19 settembre 1964 a Pratovecchio, unico maschio tra due femmine, imparando evidentemente fin da subito cosa significhi l’animo femminile, lo stesso di cui sono impregnati tutti i migliori Pinot Nero del mondo. Dopo il diploma di Perito Elettronico, diede voce al suo cuore iscrivendosi alla facoltà di agraria a Firenze, che frequentò nella seconda metà degli anni 80, quando la didattica imperante era quella vicina all’agricoltura industriale; quando l’accademia pensava che le colture idroponiche fossero la felicità; quando l’agronomo era il farmacista delle piante. Da allora qualcosa è cambiato, vivaddio.
Si parlava del cuore. Ecco, Vincenzo scelse agraria perché la sua famiglia fu da sempre vicina alla campagna casentinese, dal nonno mezzadro al babbo appassionato di agricoltura e di vino, nonostante le circostanze dei tempi lo avessero spinto ad accettare un impiego statale. Fu proprio papà Bruno a persuadere Vincenzo sulla strada della “terra”, trascorrendo con lui interi pomeriggi a zonzo per fattorie e assaggiando insieme quel buon bianco prodotto dall’unica famiglia di Pratovecchio che a quei tempi vinificava con regolarità. Il bello della memoria è che tocca i sentimenti e li porta in superficie, tanto che Vincenzo si emoziona ancora oggi, ripensando all’odore delle cantine e alle vasche di cemento posizionate all’interno di quell’antico edificio in Piazza Tanucci, a Stia.
Finiti gli studi, Vincenzo fece per un po’ l’elettricista, il campeggiatore e altri mestieri episodici, tra cui il dipendente della comunità montana del Casentino (a cui deve la perfetta conoscenza di quei luoghi). Nel 1997, l’assunzione da parte del Castello di Nipozzano, la tenuta dei Frescobaldi nella Rufina, deviò definitivamente la sua esistenza in direzione del vino, visto che in Valdisieve conobbe Federico Giuntini di Selvapiana che a sua volta gli presentò l’enologo Franco Bernabei, col quale Vincenzo avrebbe collaborato negli anni successivi, facendosi le ossa anche in qualità di consulente. La consulenza continua a essere il suo secondo lavoro: una volta chiusa la collaborazione con Bernabei, ha curato le vigne di Stefano Amerighi (dal 2003 al 2009) e oggi segue alcune piccole aziende agricole tra Umbria, Romagna e Toscana.
Nel frattempo il bernoccolo per il Pinot Nero crebbe di anno in anno (<<ne sono affascinato da sempre, ben prima che io avessi avuto modo di conoscerlo e di lavorarlo>>), tanto che ne piantò una piccola parcella sperimentale a Pratovecchio, per comprendere quale fosse l’adattabilità del vitigno al Casentino (e viceversa). Di sopralluogo in sopralluogo, valutando tutte le opzioni possibili, facendo oltretutto anche numerose ricognizioni sulle più antiche varietà autoctone del Casentino (<<che alla fine non ho preso in considerazione poiché letteralmente antieconomiche>>), nel 2002 mise gli occhi su Civettaja e <<complice la vista di sette cervi che in quel momento transumavano sul podere>> se ne innamorò letteralmente, scegliendo con istinto felice il miglior posto possibile (almeno col senno di poi) per avviare la sua cantina.
Da allora Civettaja è diventata la sua vita, e quella del vignaiolo una professione a tempo pieno: vi piantò la prima vigna di Pinot Nero nel 2006, fece il primo vino nel 2008 e senza pause dedica a quel progetto (che oggi conta poco più di tre ettari vitati) decine di ore di lavoro al giorno, tra pensieri, gioie e grattacapi.
Un altro passo decisivo sulla via della consapevolezza e della maturità di interprete fu per Vincenzo la conoscenza di Henry Jayer, vignaiolo borgognone ammantato di leggenda già in vita (e scomparso nel settembre del 2006) e per non pochi osservatori smaliziati il più grande produttore di tutti i tempi. Secondo solita letteratura Jayer concepiva vini luminosi e complessi eppure sempre piacevoli, mai ostentati; vini ottenuti con protocolli che seguivano il buon senso, prima di tutto. Qualità che Vincenzo ha imparato da quell’uomo stimato da chiunque lo abbia conosciuto, da Jacky Rigaux a Christophe Roumier, da Aubert de Villaine a Jean Nicolas Meo, dallo sfortunato Didier Dagueneau al nipote Emmanuel Rouget, dimenticandone altri.
Anche in virtù di quell’esperienza e grazie a numerose ottime versioni del Pinot Nero prodotto da Vincenzo negli ultimi dieci anni, Civettaja è considerata a ragione un Grand Cru del Pinot Nero in Italia, diviso pressoché in parti uguali tra l’azienda di Vincenzo Tommasi (Podere della Civettaja) e l’impresa del suo amico Federico Staderini, il quale fu coinvolto da Vincenzo nell’acquisto di una parte della proprietà (in principio nota come Podere Santa Felicita, oggi semplicemente Cuna).
Vincenzo è un uomo che conosce l’attesa, conscio che la fretta non serve quando di mezzo c’è la vita; che il tempo è decisivo per dirimere ogni faccenda complicata. E il Pinot Nero è per lui vita e complicazione, senza soluzione di continuità. A Vincenzo il Pinot Noir ha tolto ore di sonno e di famiglia; ha per anni monopolizzato le sue attenzioni, i suoi studi, i suoi sogni.
Sognando, studiando e tribolando ha imparato tanto, tantissimo, come pochi altri in Italia. Ha imparato ad esempio che il Pinot Nero è un’uva molto trasparente, <<un medium fantastico>>, che lascia respirare tutto: per questa ragione non è capace di moderare alcun elemento, solo di sublimarlo. Ha imparato che <<se altri vitigni possono trovare una strada anche nella modestia, il Pinot Nero non ce la fa.>>
<<Il Pinot Nero va lavorato con delicatezza estrema, ogni manipolazione è uno sfregio, per questo esige una gestione enologica spontanea, ancestrale, prediligendo l’infusione all’estrazione. Non è solo un luogo comune: il Pinot Nero è proprio bizzarro. Però se operi al meglio, se rispetti le sue esigenze agronomiche ed enologiche, allora ti ripaga con gli interessi, lasciando emergere tutta la sua nobiltà.>>
<<Qui abbiamo la fortuna di avere terreni argillo-calcarei, un’eccezione rispetto al resto dell’Appennino, che è di matrice arenacea: l’argilla è preziosa per il Pinot Nero. Le vigne migliori della Côte de Nuits possiedono una superba quantità di argilla. Il Pinot Noir ha bisogno di un terreno che nutre, che gli garantisca costanti rifornimenti e buona energia.>>
<<Il Pinot Noir è schiavo del clima fresco e noi qui possiamo usufruire di condizioni climatiche non così differenti da quelle della Borgogna, con temperature massime più alte e valori minimi più bassi. Qui a Civettaja, intorno ai 500 metri di quota, le notti estive sono piuttosto fresche, e aiutano la vite a respirare, i grappoli a conservare salubrità e gli acini a immagazzinare acidità, profumi ed elasticità della buccia. Anche i nostri pH sono in sintonia con quelli della Côte d’Or.>>
<<Da quando faccio vino, ho sempre seguito i principi di Henry Jayer, senza mai allontanarmi dalla sua “guida”. Lui insegnava che tutto inizia e finisce in vigna, che il vignaiolo deve fare il vignaiolo e deve stare in vigna. E diceva che l’enologia va studiata e non applicata, nel senso che occorre la prevenzione, non la cura. Io ho scelto di piantare a densità elevate (9000 ceppi/ettaro) solo materiale di Borgogna, sia sulle piante che sui portainnesti. Si tratta di selezioni che producono pochissimo, non più di 500 grammi per pianta. Qui da noi non c’è bisogno di diradare, il carico per pianta è per sua natura basso, la genetica dei biotipi scelti regala equilibrio in tal senso e questo conta molto in termini di sapore. Dopodiché Jayer suggeriva di diraspare e di usare il freddo all’inizio per esaltare le componenti aromatiche del vitigno, ma lo ripeto, la sua ossessione era la vigna: una grande uva è indispensabile per fare bene.>>
Da qualche tempo Vincenzo ha allargato la società a due nuovi soci e collaboratori, entrambi giovanissimi: Lucia e Alessio, <<due persone eccezionali.>> Con loro, Civettaja è diventata una squadra e una famiglia, il perfezionismo di Vincenzo trova riparo nell’entusiasmo dei ragazzi, lui si fida di loro e loro sentono di poter portare Civettaja ancora più in alto, ben oltre le vette dell’Appennino, per guardare il mondo intero.