In un tempo votato al culto della novità per la novità, orientato all’originalità e allo schiamazzo, all’eccezionalità e allo stupore longevo quanto un fuoco d’artificio, una possibilità di smarcarsi dal sistema, almeno per un momento, potrebbe realizzarsi stando ad ascoltare chi è abituato a pensare, a riflettere, a programmare; chi da sempre ha guardato lontano, per sé e per gli altri, abbassando i toni e alzando la soglia della dignità, della sensibilità e dell’intelligenza. Paolo De Marchi è in tal senso un maestro e un gentiluomo che ascolterei per ore, per giorni, per sempre, conservando ogni volta il sapore buono di un’esperienza rara.
Non lo dico io, lo dice la storia: Paolo appartiene ai grandi produttori italiani di ogni tempo. Piemontese di Lessona, dal 1976 vive e lavora in Chianti Classico, dove produce vini apprezzati ovunque nel mondo. La sua tenuta, Isole e Olena, è insediata in quella fetta di campagna chiantigiana che orbita intorno a San Donato in Poggio, sul versante occidentale della denominazione.
In una delle ultime occasioni in cui ci siamo incontrati, mi parlò della sua idea di denominazione d’origine e di terroir, e lo fece disegnano un pentagono su un foglio bianco e un po’ sgualcito recuperato per caso nel disordine della sua scrivania. Conservai quella bozza, intitolandola: La teoria del pentagono di Paolo De Marchi.
Riascoltando oggi un fugace stralcio di quell’intervista e guardando a distanza di qualche anno quel foglio custodito nella mia libreria, emergono riflessioni preziose per chi il vino lo fa e lo racconta. Emerge un’idea di terroir umana e credibile perché in continua evoluzione; emergono riflessioni che hanno a che fare con il sapere, con la sensibilità e con il buon senso; emerge una critica sana a chi del terroir ha una percezione radicale e immutabile. Ma la ragione che più mi ha persuaso a darvene testimonianza è che la brevità del testo trattiene parole comprensibili per tutti, al di là delle competenze e degli interessi di ciascuno, come fossero tessute su un ordito di esperanto.
Grazie Paolo.
<<Oggi putroppo le denominazioni d’origine sono sempre più certificazioni burocratiche, che se ne fregano dei consumatori. Allo stesso tempo, chi usa in modo compulsivo la parola terroir ne dimentica spesso il contenuto, ignorando il moto dinamico che sta alla base del suo significato. Il terroir non ha muri né rigide tavole della legge, ma solo argini, rivoli e continue eccezioni con cui si forma. La vera origine del vino è ciò che lo alimenta, ciò che il vino si porta dietro, il suo retroscena produttivo. Negli anni mi sono fatto un disegno mentale che trasferito su carta assume la forma di un pentagono: cinque lati per cinque fattori fondamentali nella genesi di un vino. Diciamo che l’origine del vino è tanto più espressa quanto più i lati del pentagono sono tra loro in costante dialogo, in un’armonia dinamica.
Il primo lato del pentagono, alla base della figura, rappresenta il terreno, la sua natura, la sua giacitura e ogni caratteristica che dona alla vigna, all’uva, al mosto e al vino le sue impronte digitali, non replicabili altrove. In questo caso la responsabilità del produttore è di conoscere quel terreno, di rispettarlo, di valorizzarlo, di sostenerlo attraverso pratiche di buon senso. Da qui la necessità di una gestione sensibile all’ambiente e allo stesso tempo l’esigenza di una zonizzazione seria, che faccia sintesi sulle caratteristiche di un distretto. È oltremodo doveroso tracciare un profilo geologico del sottosuolo, così come conoscere la struttura del suolo. Oggi la mappatura del terreno può essere scientificamente rigorosa: tocca la geologia (l’analisi delle rocce sottostanti), la geomorfologia (come la terra è plasmata dalla geologia), la pedologia (lo studio del suolo, della sua struttura, della sua profondità, della sua capacità di drenaggio), la chimica (per comprendere gli elementi peculiari del sito, la fertilità e le eventuali carenze). Si tratta di conoscenze che saranno decisive nella successiva architettura del vigneto: la scelta delle varietà, dei portinnesti, dei sistema di allevamento, dei sesti di impianto, dei tipi di potatura, del tipo di gestione agronomica.
Il secondo lato del pentagono, proseguendo verso sinistra della figura, è il clima, che caratterizza il microclima e il mesoclima, così come ogni singola annata di vino prodotto, che per legge divina non è mai auguale a un’altra nei secoli dei secoli. Questo lato è decisivo perché ricorda al produttore che occorre accettare di fare i conti con cause imponderabili, adattandosi anche agli eventi più estremi, che oggi più che mai sono frequenti e talvolta drammatici, non solo per le sorti del vino e per l’economia aziendale, ma anche per la conservazione del territorio, che in Italia è sempre più fragile. Questo punto ci stimola oltremodo a fare del nostro meglio per salvaguardare l’ambiente, diventando operatori sempre più sensibili ai temi dell’ecologia e della prevenzione.
Il terzo lato del pentagono, a destra della figura, rappresenta la genetica. Se nei primi passaggi di questo ragionamento il ruolo dell’uomo e della donna è solo laterale, qui diventa invece centrale. E nel rispetto della natura, delle consuetudini, delle radici e della memoria, gli uomini e le donne devono avere l’ambizione di migliorare continuamente il proprio percorso, anche perché la genetica ci permette di adattarci alle condizioni del terreno, del clima e dell’ambiente. Quando si pianta una vigna è dunque doveroso scegliere viti e portainnesti in piena sintonia con l’intero progetto enoviticolo e con il territorio in cui si opera
Il quarto lato del pentagono, appartiene a chi il vino lo fa: il vignaiolo, l’enologo, il cantiniere. È bene ricordare che il ruolo del produttore è decisivo nella creazione di un vino, ma perché il vino abbia radici, memoria e carattere, l’essere umano non dovrà mai sentirsi superiore ai punti precedenti. Questa faccia del pentagono ci dice che il vino viene prodotto da una persona di oggi, che vive i problemi di oggi, che deve affrontare, qui e ora, le complicazioni della stagione in corso, della vigna che ha disposizione, del terreno su cui è piantata. In più, non deve dimenticare le regole dell’impresa, rispettando il mercato a cui si rivolge, senza tuttavia mai accettare una situazione di sudditanza.
Il quinto lato del pentagono, è quello forse più complicato, meno materiale e più metafisico. Questo punto contiene il tessuto relazionale dei luoghi, la memoria delle comunità, la struttura cognitiva delle zone in cui si opera. Qui si dà voce a tutte le persone che ieri, oggi e domani hanno prodotto, producono e produrranno vino in un determinato territorio: è il sapere e la sua trasmissione, è perciò l’essenza della tradizione, ovvero il dire tra generazioni. Questo punto ci suggerisce di attraversare con lucidità e consapevolezza le trasformazioni sociali ed economiche della terra in cui si vive e si lavora. Significa essere pronti al cambiamento e alla sperimentazione, ma sempre nel rispetto delle radici e sempre in raccordo con i punti precedenti.>>
Fonte: Francesco Falcone - WineSurf