Una cosa è certa: nell’Alto Piemonte del vino qualcosa sta accadendo, e certi segnali sono lì a dimostrarlo. Intanto un rifiorire di cantine e di nuove iniziative agricole, a dimensione prevalentemente familiare, per una conseguente riscoperta delle antiche vocazioni. Per intenderci, su 50 produttori presenti alla riuscitissima kermesse “Taste Alto Piemonte”, svoltasi nei giorni scorsi a Novara e giunta alla sua terza edizione, il 60% di questi ha iniziato l’attività di imbottigliamento in proprio negli ultimi quindici anni. C’è fermento quindi, ed è una buonissima notizia. Se ci aggiungiamo poi i recenti investimenti in zona effettuati da parte di eminenti esponenti dell’enologia nazionale, l’asserto trova le sue brave giustificazioni, sancendo che tutto questo “movimento” fattuale di idee e di intenzioni non è per caso.
Perché, intendiamoci bene, questo territorio “di frontiera” bellissimo, composito e prepotentemente collinare avrebbe tutte le carte in regola per sparigliare e conquistare i mercati del mondo, soprattutto nell’attuale fase storica e congiunturale, segnata da una accresciuta consapevolezza da parte dei consumatori, sempre più orientati nelle loro scelte su eleganza, freschezza e sfumature di sapore, e caratterizzata da una circostanza a dir poco epocale che vede la Langa dei Barolo e dei Barbaresco, naturale competitore sul fronte del nebbiolo piemontese, farsi oggetto di una speculazione senza precedenti che sta portando ad una diffusa impennata nei prezzi dell’imbottigliato, tanto da incanalare definitivamente quelle denominazioni nel segmento esclusivo ed elitario dei premium wine.
Nel riannodare i legami atavici con una campagna mai dimenticata, ecco quindi che i vignaioli altopiemontesi hanno una carta potenzialmente vincente in mano: ci parla di valenza territoriale e di prezzi calibrati, e sta a loro giocarsela nel modo migliore, ossia in un’ottica identitaria.
Il Consorzio di tutela Nebbioli Alto Piemonte sembra averlo compreso, e il dinamismo promozionale che va dimostrando ne è una chiara testimonianza. E lo ha compreso al punto tale da insistere quasi ossessivamente su concetti quali suolo, microclima e storicità, la sacra triade per riconquistare il tempo perduto, e con il tempo un ruolo di primo piano. In altre parole, dare sostanziale peso ad un blasone, far capire cioè da dove si proviene, che cosa c’è sotto quei piedi di vigna, l’influenza delle montagne attorno, il perché di una viticoltura “di confine”.
Ed è così che nel prodotto enologico si cerca di avvalorare tutto il senso che può essere racchiuso in un antichissimo “supervulcano”, nelle conseguenze di una glaciazione, nei sedimenti e nelle sabbie lasciati da vecchi mari, nelle millenarie stratificazioni di tufi e porfidi, graniti e argille, o nella unicità di una collina di origine morenica. Un microcosmo di situazioni che si apre ad un ventaglio appassionante di possibilità espressive, un patrimonio di suoli e condizioni pedo e microclimatiche da non disperdere nel mare magnum di una manifattura meramente “interventista” o, di contro, disattenta.
Perché se c’è una cosa, da appassionati prima ancora che da cronisti, che ci lega in maniera affettiva al “paesaggio” organolettico evocato dall’Alto Piemonte, ebbene questa resta appesa alle rarefazioni, alle dissolvenze, alla nudità, alla forza interiore e alla nobile introspezione dei nebbioli di montagna. D’altronde qui è dove la saldezza si risolve in grazia, e dove il telaio sapido-minerale può costituire la colonna portante di un profilo gustativo che non scordi: sta ai produttori amplificarne la voce.
Non mancano infatti le insidie, dovute forse ad un ritardo di consapevolezza tecnica e di sensibilità interpretativa e ad un mercato che va comunque del tutto conquistato e mantenuto, fattori sui quali ha pesato non poco l’abbandono delle campagne in tempi non così lontani e che avrebbero potuto indurre in tentazione i produttori, tipo il ricercare scorciatoie stilistiche più facilmente spendibili su certi mercati internazionali (a discapito magari di una bella fetta di autenticità), oppure ingenerare una scarsa attenzione nelle varie fasi produttive nel caso di congiunture commerciali particolarmente incerte (a tal proposito, più di un vino è apparso in uno stato evolutivo un po’ accentuato, o con qualche sfocatura ed imprecisione di troppo), ma sono circostanze queste che possono essere ben messe nel conto e dalle quali è d’obbligo trarne i dovuti insegnamenti. Soprattutto se alla fine del salmo si è deciso comunque di continuare a lavorare con rigore e dedizione nel pieno rispetto dei vitigni e del territorio, la sola strada che può permettersi di guardare in faccia il futuro senza timori riverenziali. Di più, la sola in grado di riprenderselo tutto, quel tempo.
PER ORIENTARSI
Il Nord Piemonte del vino comprende le province di Novara, Vercelli, Biella, Verbano-Cusio-Ossola e contempla 10 denominazioni d’origine fra DOC e DOCG, dove il nebbiolo è il vitigno principe, spesso accompagnato da storici comprimari come vespolina (espressa anche in purezza), croatina (idem) e uva rara, aka bonarda novarese, da non confondersi con il biotipo presente in Oltrepò pavese.
Le denominazioni in gioco portano questi nomi, alcuni dei quali di chiara fama: Valli Ossolane, Coste della Sesia, Colline Novaresi, Fara, Sizzano, Ghemme, Bramaterra, Lessona, Boca, Gattinara.
Da ricordare che per certune il disciplinare non consente l’elaborazione di nebbiolo in purezza (vedi Fara, Sizzano, Boca, Bramaterra), per altre sì (Ghemme, Lessona, Gattinara, Colline Novaresi, Coste della Sesia, Valli Ossolane).
Ah, dimenticavo: a queste latitudini il nebbiolo viene chiamato spanna.
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AVVISO AI NAVIGANTI
Eccetto quei casi (e non sono pochi) in cui l’uvaggio verrà espressamente indicato a margine del nome del vino, e fatto salvo i vini a base vespolina con cui apriremo le danze, in tutti gli altri casi trattasi di nebbiolo in purezza. Per ragioni di salvaguardia della salute psico-fisica dei pazienti lettori, abbiamo diviso la narrazione in due parti, seguendo quasi pedissequamente l’ordine di apparizione.
Mancano all’appello quei vini per i quali non ho trovato appigli narrativi, vuoi per gli influssi malefici di tappi incerti, vuoi per il fatto di non averli semplicemente compresi.
Per ultimo vi anticipo già che troverete qui dei vini parlanti, lirici, evocativi, ad ogni livello di complessità ed ambizione. Ebbene, le suggestioni le ho affidate alle parole, ma anche ai silenzi.
Coste della Sesia Rosso Garsun 2017 La Prevostura
(nebbiolo 65%, vespolina 25%, croatina 10%)
Agrume rosso, candore, saldezza dissimulata in garbo, e poi slancio e sale: davvero distintivo nell’ambito della tipologia.
Lessona 2015 – La Prevostura
Grande nebbiolo, elegante, teso, slanciato, stilisticamente a fuoco, di bella levità e forza interiore. Molto caratterizzato, nel finale si irradia senza costrizioni, i tannini come una nuvola. Un bel vedere.
Fonte: Acquabuona