“La prima volta che sono andato a trovarlo per lavoro avevo appuntamento, ma arrivai tardissimo e quando suonai in cantina era ora di pranzo. Era primavera e aveva la porta socchiusa, così dopo lo scampanellare sentii tirare una Maremma di quelle sode e un paio d’accidenti per contorno”.
“Beh ottimo, te ne sei andato?”.
“Al contrario! Non solo mi ha aperto, ma mi ha pure offerto vino, caffè e amazzacaffè”.
Sorrido quando Matteo mi racconta questo episodio, perché ancora non conosco Antonio Camillo, dal quale stiamo andando con un gruppo d’amici, ma ci ritrovo tanto del carattere di quella terra. Antonio sta a Manciano, detta “la spia della Maremma” perché si trova su un poggio (nel punto più alto siamo a quasi 450 metri sul livello del mare) e dalla torre che domina l’antico borgo si gode di un’ampia vista su tutta la piana della Maremma toscana che scende verso il Tirreno, cosa che un tempo rendeva Manciano un punto strategico per chiunque intendesse controllare quel territorio.
Stavolta arriviamo in orario, nessun accidente ci piove addosso e Antonio Camillo ha delle rughe ai lati degli occhi che sono quelle di chi in vita propria ha molto sorriso, o si è molto preoccupato oppure ha molto guardato controsole. O forse tutte e tre queste cose.
“Io non vengo da una famiglia contadina, ma nel vino ormai, è tanti anni che ci vivo in mezzo”. Ma quindi si può imparare a fare il vino anche senza aver svolto un percorso accademico? “Si può imparare a fare tutto. Tutto. Ci devi avè passione, esperienza e un’idea tua”.
E qui è il succo della questione.
La passione è tutta in una frase che arriva quando ci racconta che iniziò a lavorare in una cantina a San Gimignano che aveva per enologo Paolo Salvi, “una persona che mi fa piacere ricordare, per la stima che ho di lui e che per me è un amico. È stata la persona che mi ha dato le basi per diventare un cantiniere e io, per seguire tutte le sue indicazioni, facevo mezzanotte in cantina per pulire tutto alla perfezione”. E lo facevi volentieri? “Sì, perché trasformare le fatiche di un anno in vino mi ha sempre dato una grande emozione e soddisfazione, anche quando facevo semplicemente l’operaio”.
L’esperienza proseguì alla fattoria Le Pupille e poi, soprattutto a Poggio Argentiera. “Una palestra di valore assoluto. Avevo tante responsabilità ed ho imparato davvero tanto”. Erano gli anni in cui il Capatosta lo trovavi ovunque, prima su giù per la costa, poi nei ristoranti in città e infine in giro per il mondo. Ed era quando il Morellino sembrava l’alba della nuova era che non fu. Il tradimento del Morellino ha segnato profondamente il destino enoico – e anche economico – di quella terra. Che se ti guardi intorno, mentre passi per le strade intorno a Scansano, potresti quasi sentire Hunter Thompson raccontarti di quando da quelle parti si pensava che “la nostra energia avrebbe semplicemente prevalso, avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, solo pochi anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Manciano e, se guardavi ad ovest, con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta. Quel punto, dove l’onda infine si è infranta ed è tornata indietro”.
Ma intanto Antonio Camillo aveva iniziato a girare per vigne. “Mentre ancora lavoravo a Poggio Argentiera mi capitò, girando, di vedere una vigna di Ciliegiolo e me ne innamorai. Decisi che volevo fare una cosa nuova e ne parlai a Gianpaolo (Paglia, all’epoca proprietario di Poggio Argentiera) lui fu entusiasta e così facemmo una società insieme con cui, di fatto, producevamo vini che allargarono la gamma di Poggio Argentiera”. E le cose funzionarono? “Sì, con lui c’era un rapporto splendido. Ricordo una volta che eravamo insieme e lui mi disse: Ma te, dei nostri vini, che bevi?. E io gli risposi sincero: Il Ciliegiolo e l’Ansonica. Fu l’inizio di un cambio di rotta nello stile di produzione dell’azienda. Profondo, radicale, ma realizzato nel giro di pochissimo tempo, perché ci eravamo capiti”.
Sorride ricordando il primo vino nato da quella svolta. “Il Capatosta 2009 fu un vino incredibile. Un Sangiovese 100%, vero, splendido, forse a causa anche di un’annata un po’ strana. Aveva un colore scarico, quasi quello di un rosato. Fantastico”. Si ferma un secondo. “Certo poi per venderlo, ci toccò spiegarlo bene!”.
Nel 2014 Gianpaolo Paglia però, vendette l’azienda “e io decisi che era venuto il momento di provare a fare qualcosa da solo”.
Ecco l’idea.
“Avevo un’idea mia. Sì. E oggi ce l’ho ancora. Anzi, è l’unica cosa che ho davvero. Perché meno che me stesso, io c’ho tutto in affitto”. Ridiamo. Lui continua.
“Ad oggi ho 17 ettari di vigneto in affitto. Sparsi in prevalenza sui territori di Manciano e, anche se meno, di Pitigliano. Alcuni sono in affitto dal 2006 e c’è una conoscenza consolidata, anche se in realtà è una ricerca continua, che porta a scoprire quanto il Sangiovese stia bene in alcuni posti e il Ciliegiolo in altri”. Alza il bicchiere, guarda il vino. E poi è come se ci tenesse a chiarire. “Io penso che sia una fortuna, lavorare così, perché ho vigneti scelti con cura, in zone diverse. E in più ce ne sono tanti che hanno oltre 50 anni”. Bevo e penso, tra me e me, che sia una fortuna anche per questa terra che ci sia chi ha avuto la saggezza di cercare, trovare, magari recuperare, e curare vecchie vigne, in una zona dove invece si stanno abbandonando.
Vecchie vigne che vengono tagliate o abbandonate perché le persone anziane, che sono la gran parte della popolazione di queste zone, non riescono più a starci dietro, sono il segno di una comunità che si sta spegnendo. E non è solo uno spegnersi demografico, ma prima ancora culturale e sociale.
Di vini ne abbiamo assaggiati diversi, anche di altri produttori, e di lui mi ha colpito la rapidità dei giudizi, anzi, delle reazioni. Istintive quasi. Mi ha fatto sorridere vederlo assaggiare un vino e prima ancora di deglutire, aveva già chiuso gli occhi in una smorfia di sofferenza! E non era un vino cattivo, anzi. Semplicemente non era il vino che piace a lui.
E lì ti rammenti che lui ha un’idea sua. E che è tutto quel che realmente possiede. Un’idea dei vini che gli piacciono e che cerca di realizzare.
Io, senza farla tanto lunga, quando ho bevuto il Ciliegiolo 2018, sono stato felice di sentire la forma presa da quell’idea. E guardando sull’etichetta la scritta “vini di territorio”, trovo che sia più bella di tante altre definizioni.