Con un’ampia premessa sull’opportunità linguistica di usare in pubblico il termine “empireumatico”.
L’aggettivo quasi impronunciabile empireumatico ha nel dizionario Treccani questa definizione:
empireumàtico agg. [der. del gr. «carbone che brucia»] (pl. m. -ci). – Che si ottiene o proviene da distillazione secca: odore e., il particolare odore caratteristico di sostanze ottenute per distillazione secca di prodotti animali o vegetali; olî e., liquidi prodotti dalla distillazione secca di catrame, di creosoto, ecc.
Sarebbe troppo comodo, tuttavia, utilizzarlo in maniera tanto ortodossa e fedele alla lingua. Per chi si occupa di degustazione è più facile piegarlo a significare altri sistemi sensoriali, confinanti ma non necessariamente coincidenti.
Nella vecchia guida espressica riportavamo:
Dal greco “carbone che brucia” [e fin qui ci siamo], individua una vasta famiglia di profumi che incorpora note affumicate (cenere, torba) e di torrefazione (caffè, cacao), così come quei sentori che i francesi definiscono “grillé” (biscotti, crosta di pane) e “brûlé” (caucciù, goudron).
Con il caucciù la faccenda oggettivamente si complica. Non credo chi ha meno di cinquant’anni – ma mi spingerei a dire chi ha meno di sessanta, settanta, ottant’anni – abbia mai remotamente annusato del caucciù.
Ciò nonostante, lo spettro dei sentori empireumatici ha una sua evidente importanza nell’universo aromatico del vino, e non solo del vino: “il sentore del cotto, o anche del bruciato, è il primo segnale della civiltà”, secondo l’antropologo lettone Niklavs Sirmais. I vini più apprezzati hanno spesso qualche sfumatura secondaria empireumatica. E non necessariamente per la banale causa della tostatura del rovere. Ma per qualcosa di insondabile: legato al frutto? alle permutazioni aromatiche della fermentazione e/o dell’affinamento? non so e non mi interessa. Quelle note stanno lì e basta.
Prendiamo una varietà a caso, il pinot nero. È un dato statisticamente rilevante, almeno nella mia esperïenza, che alcuni dei migliori Borgogna abbiano delle nuance affumicate, o di frutto tenuemente rôtì(“arrostito”), soprattutto nell’età matura. Ciò che si verifica anche in taluni esemplari della specie che hanno trovato un buon habitat in territorio italiano.
Uno stesso esempio in due varianti distinte. Nella regione chiamata comunemente Toscana, al centro della penisola italiana, si trova l’area del Casentino. Una zona montuosa appartata, più chiusa rispetto alle valli appenniniche vicine: “Le montagne che circondano il Casentino sono notevolmente più alte di quelle che racchiudono il Mugello, esse superano quasi ovunque i 1000 metri e rendono il bacino più isolato e culturalmente peculiare”. (Giovanni Caselli, “Casentino, guida storico antropologica e ambientale”, 2003)
Qui è in atto da anni, fuori del chiacchiericcio mediatico che avvolge come una nuvola le aree vinicole famose, uno studio di fattibilità su rossi a base di pinot nero. Lo conduce un gruppetto di vignaioli determinati a sfruttare le somiglianze – sia pedo che climatiche – della loro zona con la Borgogna.
Tra essi vignaioli sono peculiarmente interessanti gli esiti di Federico Staderini da un lato (Pinot Nero Cuna) e di Vincenzo Tommasi (Pinot Nero Civettaja) dall’altro. Le rispettive vigne sono confinanti, e su questo stimolante paragone, suggeritomi con il suo consueto acume dal sodale Giampaolo Gravina, tornerò nel prossimo numero della rivista Vitae dell’Associazione Italiana Sommelier.
Qui annoto che i due rossi della vendemmia 2015, quale più (Cuna), quale meno, offrono nelle rifrazioni gusto-olfattive finali la suddetta nota rôtì. Ovviamente accennata: un soffio, una virgola; a testimoniare di un probabile – anche se non mai scontato – sviluppo empireumatico futuro.
Entrambi buonissimi, centrati su un frutto ad ali spiegate*, hanno dinamica gustativa sicura, tannini sapientemente estratti e – nelle rispettive differenze – una chiusura dal forte potere tracciante lungo l’esofago e fino allo stomaco.
Difficile trovare Pinot Nero nostrani più vivi e buoni.
* il frutto ad ali spiegate necessita di spiegazioni (da cui il termine): è un timbro fruttato arioso, slanciato, che vince la forza di gravità e arriva direttamente dal palato al cervello e da lì ai capelli, per poi svolazzare sul soffitto della stanza.
Fonte: Fabio Rizzari - Piattoforte